Elettrocardiogrammi poetici

ritmi

Due minuti, 120 battiti (più o meno): il tempo di leggere alcune poesie che parlano del cuore (che, si sa, fa sempre quello che vuole).

Al mio cuore, di domenica

Ti ringrazio, cuore mio:
non ciondoli, ti dai da fare
senza lusinghe, senza premio,
per innata diligenza.
Hai settanta meriti al minuto.
Ogni tua sistole
è come spingere una barca
in mare aperto
per un viaggio intorno al mondo.
Ti ringrazio, cuore mio:
volta per volta
mi estrai dal tutto,
separata anche nel sonno.
Badi che sognando non trapassi in quel volo,
nel volo
per cui non occorrono le ali.
Ti ringrazio, cuore mio:
mi sono svegliata di nuovo
e benché sia domenica,
giorno di riposo,
sotto le costole
continua il solito viavai prefestivo.

Wisława Szymborska, La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), Adelphi.

 

Il signore nel cuore

Le era entrato nel cuore.
Passando dalla strada degli occhi e delle orecchie le era entrato nel cuore.
E lì cosa faceva?
Stava.
Abitava il suo cuore come una casa.

Vivian Lamarque, da Vivian Lamarque – Poesie 1972-2002

 

Francis Turner

Io non potevo correre né giocare
quand’ero ragazzo.
Quando fui uomo, potei solo sorseggiare alla coppa,
non bere —
perché la scarlattina mi aveva lasciato il cuore malato.
Eppure giaccio qui
blandito da un segreto che solo Mary conosce:
c’è un giardino di acacie,
di catalpe e di pergole addolcite da viti —
là, in quel pomeriggio di giugno
al fianco di Mary —
mentre la baciavo con l’anima sulle labbra,
l’anima d’improvviso mi fuggí.

Edgar Lee Masters, traduzione di Fernanda Pivano, da Spoon River Anthology, Einaudi Editore, 1943

* ascoltando Un malato di cuore –  Fabrizio De Andrè https://www.youtube.com/watch?v=R4sqEWrn0DY

 

 

Consiglio un libro (4°) – Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: oltre le ipocrisie (verso la libertà)

dormonosullacollina

L’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: oltre le ipocrisie (verso la libertà)

(articolo originale già pubblicato qui https://caffebook.it/2016/08/23/l-antologia-di-spoon-river-di-edgar-lee-masters-oltre-le-ipocrisie-verso-la-liberta/)

Cosa ci renderebbe liberi di poter dire, senza alcuna limitazione, tutta la verità su di noi, sui nostri pensieri più sinceri, sui nostri più profondi desideri? Solo l’irrealizzabile fatto di raccontarli senza essere più in vita, quindi il non doverci più preoccupare di ciò che dobbiamo apparire  perché gli eventi, le necessità, gli altri (e molto spesso noi stessi) ci hanno imposto determinati “abiti”. Ed esattamente  tutta la verità dicono i 244 personaggi dell’Antologia di Spoon River, personaggi ormai morti ma vivissimi nella loro “rivelazioni”.

Questo libro, dal successo incredibile e che secondo Fernanda Pivano è stato il libro di poesia americana più venduto fino al momento della sua pubblicazione (1914-1916),  è l’opera più famosa di Edgar Lee Masters.  Nato il 23 agosto 1868, a Garrett (in Kansas, ma trascorrerà l’infanzia a Petersburg e l’adolescenza a Lewistown, Illinois), Masters svolse la professione di avvocato, anche se era stato il padre a costringerlo a seguire tale carriera, allontanandolo dagli studi a causa delle precarie condizioni economiche della famiglia. Ma il forte interesse per la cultura e la scrittura non lo abbandonò mai. Infatti nel 1898 pubblicò un primo libro di poesie e nel corso dei dieci anni successivi espresse  le sue idee libertarie in una serie di saggi e opere teatrali, scritti però con lo pseudonimo di Wallace Dexter, continuando sempre a lavorare come avvocato. Poi si accorse (cito le parole di Fernanda Pivano) “che se la vita di campagna era molto diversa da quella di città, non cambiavano granché gli esseri umani […] che le passioni sono identiche in tutti, anche se in qualcuno sono più abilmente soffocate o nascoste. E gli venne in mente di raccontare la storia del suo villaggio […]. Ma non sapeva decidersi a scegliere la forma in cui raccontarla”(cfr. l’introduzione all’edizione italiana dell’Antologia di Spoon River, Einaudi, 2009, p. XII). È il direttore di un giornale, il Mirror di St. Louis, a suggerirgli di leggere l’Antologia Palatina, una raccolta di epitaffi ed epigrammi greci ricchi di passioni e intimità. Nasce così in Masters l’idea di far parlare proprio sotto forma di epitaffi, quindi semplici iscrizioni tombali, ciascun abitante di un immaginario villaggio, anche se “immaginario” non lo era completamente: fu infatti in seguito ai racconti della madre sugli eventi tristi e fallimentari dei suoi vecchi conoscenti, che scrisse la prima poesia, La collina  (dove immagina tutti gli abitanti sepolti uno accanto all’altro “Tutti, tutti, dormono sulla collina…“), e dopo quella ne seguirono molte altre. Quindi quasi per scherzo scelse il titolo “Antologia di Spoon River ” (Spoon è il fiume che attraversa la cittadina di Lewistown e per questo spesso nelle guide è questa città a essere definita la patria di Masters, anche se in realtà furono Petersburg e il fiume Sangamon a ispirare il nucleo fondamentale dell’antologia) e inviò il tutto al giornalista di S. Louis che pubblicò subito le poesie con un secondo pseudonimo (Webster Ford). Le poesie continuarono a uscire sul Mirror  dal maggio del 1914 fino alla fine dell’anno e ottennero un successo tale da costringerlo a rinunciare allo pseudonimo.  E anche l’intera antologia, pubblicata in un unico volume nel 1916, continuò ad avere un successo così grande  da consentire a Masters di lasciare la professione di avvocato (nel 1920) vivendo per qualche anno dei proventi del libro e della sua attività di scrittore. Le altre sue opere (molte in versi, alcune opere teatrali e sei studi biografici tra cui quelli su Walt Whitman, Mark Twain e Abraham Lincoln), non ebbero però la fortuna dell’Antologia, e in seguito Masters,  per sopravvivere, dovette ricorrere all’aiuto di amici, per poi morire in povertà (nel 1950).

In Italia questo testo è stato pubblicato la prima volta da Einaudi, nel 1943, nella traduzione di Fernanda Pivano (e da allora vi sono state sessantadue edizioni e sono stati venduti più di cinquecentomila esemplari). Era però stato scoperto da Cesare Pavese (tramite un amico italo-americano che spesso gli passava libri di autori introvabili in Italia), che se ne innamorò e  convinse Einaudi a pubblicare il manoscritto della traduzione fatta appunto dalla Pivano  (anche se per ottenere l’autorizzazione dalle censure di quegli anni, dovette richiedere il permesso di pubblicazione per l’antologia di un improbabile santo, “Antologia di S. River”, titolo con cui effettivamente venne pubblicata in un primo momento).

È questa la storia del libro di Edgar Lee Masters, letto e amato da tantissime persone e il perché lo si può capire anche dalle parole della stessa Fernanda Pivano: “Non c’è dubbio che per un’adolescenza come la mia, infastidita dalla roboanza dell’epicità a tutti i costi in voga nel nostro anteguerra, la semplicità scarna dei versi di Masters e il loro contenuto dimesso, rivolto ai piccoli fatti quotidiani privi di eroismi e impastati soprattutto di tragedia, erano una grossa esperienza. […] la rivolta al conformismo, la brutale franchezza, la disperazione, la denuncia della falsità morale, l’ironia antimilitarista, anticapitalista, antibigottista: la necessità e l’impossibilità di comunicazione. In questi personaggi che non erano riusciti a farsi ‘capire’ e non avevano ‘capito’, dal loro dramma di poveri esseri umani travolti da un destino incontrollabile, scaturiva un fascino sempre più sottile…”.

Leggendo i versi dell’Antologia si intuisce facilmente la volontà di Masters di portare nella poesia la vita “vera” con tutte le sue sfaccettature, raccontandoci quindi ogni aspetto umano, più o meno luminoso, senza nascondere nulla: in questo modo i personaggi, che dovrebbero essere morti, in realtà ci appaiono vivi di una vita finalmente sincera. Gli epitaffi che leggiamo in questo libro abbattono in modo semplice e al contempo magistrale le ipocrisie di ogni tempo. Ecco perché, forse, la lettura dell’Antologia di Spoon River risulta sempre un’esperienza coinvolgente e attuale. Tra tutte le poesie dell’antologia, è impossibile non citare almeno Il suonatore Jones, che Fabrizio  De André trasformò in una canzone, assieme ad altre otto poesie, nell’album Non al denaro, non all’amore né al cielo del 1971.

Jones è l’unico personaggio, in questa raccolta di canzoni, a cui De André lascia il nome. Se infatti nelle poesie originali di Edgar Lee Masters ogni personaggio ha un nome e un cognome, i titoli delle canzoni di De André  sono generici (Un  medico, Un giudice, Un malato di cuore, e così via) sottolineando in tal modo l’universalità  di alcuni comportamenti umani che si possono ritrovare in ogni luogo e in ogni tempo. Ma, soprattutto, Il suonatore Jones (personaggio con cui si chiude l’album) rappresenta l’unica anima che si è salvata (e così intendeva lo stesso Masters): è il solo su quella collina a non avere rimpianti di alcun tipo, perché è il solo a non aver rinunciato alla felicità. Per tutta la vita egli ha fatto quello che sentiva di voler fare:  suonava come se fosse una missione e proprio in questo modo si è salvato. Jones è quindi il simbolo di chi ha il coraggio di essere sé stesso fino in fondo e non rinuncia a scegliere di essere libero. Il suonatore Jones è la speranza che Masters ci lascia.

Il suonatore Jones

 (E. L. Masters)

La terra ti suscita,
vibrazioni nel cuore: sei tu.

E se la gente sa che sai suonare,

suonare ti tocca, per tutta la vita.

[…]

Finii con le stesse terre,

finii con un violino spaccato —

e un ridere rauco e ricordi,

e nemmeno un rimpianto.

* Fabrizio De André – Il suonatore Jones https://www.youtube.com/watch?v=cuAhlWLBZ_M

La scelta “giusta” non esiste, esistono le scelte

scelta

George Gray

Molte volte ho studiato

la lapide che mi hanno scolpito  ̶

una nave con la vela piegata in riposo nel porto.

In verità non ritrae la mia destinazione,

ma la mia vita.

Perché l’amore mi venne offerto e io fuggii dalla sua delusione;

il dolore bussò alla mia porta, ma io avevo paura;

l’ambizione mi chiamò, ma ero atterrito dai suoi rischi.

Pure tutto il tempo avevo fame di un significato nella vita.

E ora so che dobbiamo innalzare la vela

e cogliere i venti del destino,

ovunque essi guidino la nave.

Dare significato alla vita può sortire follia

ma una vita senza significato è la tortura

dell’irrequietezza e del desiderio vago –

è una nave che anela il mare eppur lo teme.

(Edgar Lee Masters, tratta dall’Antologia di Spoon River, traduzione di Letizia Ciotti Miller)

«Non esiste alcun modo di stabilire quale decisione sia la migliore, perché non esiste alcun termine di paragone. Lʼuomo vive ogni cosa subito per la prima volta, senza preparazioni». Così scrive Milan Kundera in una pagina de Lʼinsostenibile leggerezza dellʼessere.
Però tutti, o quasi, almeno una volta nella vita abbiamo provato la sofferenza legata al rimpianto per una scelta fatta (del resto solo il superuomo di Nietzsche non ha proprio mai rimpianti per il passato – né timori o speranze per il futuro – accettando ogni istante dellʼesistenza): la convinzione o il dubbio fortissimo di aver fatto la scelta sbagliata può diventare assillante fino a occupare costantemente un posto nei nostri pensieri, rovinando anche i momenti più belli.

Nel libro Imperfetti e felici (Imperfaits, libres et heureux, 2006, nella traduzione di Anna Morpurgo, ed. Corbaccio) lo psichiatra francese Christophe André afferma che il rimpianto è ancora più frequente in presenza di problemi di autostima, tanto che alcune persone con una bassa autostima preferiscono non scegliere per non correre il rischio di pentirsene. Ma quello che crea maggiori rimpianti è lʼaver fatto una determinata cosa o il non averla fatta?

Poiché, spiega André, il tempo che passa fa evolvere i nostri rimpianti, nellʼimmediato tendiamo a rimpiangere soprattutto le cose che abbiamo fatto (rimpianti di azione, ovviamente quando quellʼazione non è andata a buon fine), mentre sul lungo termine, e intervenendo un certo distacco, tendiamo a rimpiangere le cose che non abbiamo fatto (rimpianti di inazione). Sul piano emozionale, i primi, in cui rimpiangiamo una realtà, sono definiti “caldi rimpiantiˮ  mentre i secondi, in cui rimpiangiamo una virtualità,vengono definiti “rimpianti melanconiciˮ.
Le ricerche hanno poi riscontrato che i soggetti con una buona autostima producono delle lievi distorsioni della memoria, sentendosi così più vicini ai loro successi e più lontani dai fallimenti, mentre per i soggetti con una bassa autostima accade esattamente lʼinverso. In ogni caso, continua André, tutti, con o senza unʼautostima elevata, per lottare contro i rimpianti eccessivi dovremmo liberarci dal mito della “scelta giustaˮ. Questa semplicemente  non esiste in quanto solo noi abbiamo il potere di rendere le nostre scelte giuste o sbagliate: «Dovremmo evitare di vedere la nostra vita come un susseguirsi di momenti decisivi e definitivi» (cfr. pag. 338 del testo sopra citato).
La cosa migliore, per liberarsi almeno dalla paura dei rimpianti anticipati legati a una scelta, non è quindi rinunciare ad agire, ma aumentare la propria capacità di tollerare il fallimento. E soprattutto imparare a ricavarne un insegnamento.

Inoltre, come consiglia spesso ai suoi studenti la professoressa Catherine Drew Gilpin Faust (la prima donna a ricoprire la carica di Rettore dellʼUniversità di Harvard), non dovremmo  accontentarci sempre del “primo parcheggio liberoˮ facendo cioè solo le scelte più semplici, ma tentare anche scelte più ardite (la teoria “del parcheggio liberoˮ, the parking space theory of life afferma infatti, metaforicamente, che non bisognerebbe parcheggiare a un chilometro di distanza dalla propria destinazione solo perché si teme di non riuscire a trovare un altro posto libero: meglio arrivare più vicini alla propria destinazione e se proprio non si riuscisse a trovare “parcheggioˮ, si tornerà indietro). È necessario perciò imparare ad accettare, se non ad amare, le scelte più o meno coraggiose già fatte e affrontare quelle future con questa consapevolezza, senza attendere che siano gli eventi esterni a decidere per noi.

Ma come la mettiamo con i rimpianti che già ci fanno compagnia? Come possiamo renderli meno dolorosi e convincerci che quella sensazione che spesso torna a perseguitarci in fondo ci può essere utile e ci sta insegnando qualcosa? In realtà faremmo volentieri a meno anche dellʼinsegnamento oltre che della sensazione dolorosa. Però eliminare del tutto e in poco tempo i rimpianti è quasi impossibile, possiamo solo mitigarli con qualche strategia.

Nellʼattesa di metabolizzare la lezione  e di sentirci meno schiacciati da questa fastidiosa compagnia, potremmo provare a credere a queste  parole di Arthur Golden tratte da  Memorie di una geisha: «Il rimpianto è un tipo di dolore molto particolare; di fronte a esso siamo impotenti. È come una finestra che si apra di sua iniziativa: la stanza diventa gelida e noi non possiamo fare altro che rabbrividire. Ma ogni volta si apre sempre un po’ meno, finché non arriva il giorno in cui ci chiediamo che fine abbia fatto».

Un amico saggio, quindi, vedendoci in difficoltà, ci direbbe di attendere con pazienza il giorno in cui il rimpianto sembrerà svanire e nel frattempo continuare a fare le nostre scelte senza troppa paura. Saremo capaci di ascoltarlo? (Irene Marchi – testo già apparso in http://caffebook.it/societa-2/item/398-la-scelta-giusta-non-esiste-esistono-le-scelte.html)

*Io ascolterei:  Edith Piaf – Non, je ne regrette rien.