Salire

“La regola secondo me è: quando sei a un bivio e trovi una strada che va in su e una che va in giù, piglia quella che va in su. È più facile andare in discesa, ma alla fine ti trovi in un buco. A salire c’è più speranza. È difficile, è un altro modo di vedere le cose, è una sfida, ti tiene all’erta”.
Tiziano Terzani, da La fine è il mio inizio

salire1

Ma queste nostre strade sono sempre in salita? O forse a volte siamo già sulla cima e non ce ne accorgiamo (in fondo l’aria attorno a noi è già cielo).

Per salire al cielo

calligramma

Per salire al cielo occorrono
due ali
un violino
e tante cose infinite,
ancora non nominate,
certificati di occhio lungo e lento,
iscrizioni sulle unghie del mandorlo,
titoli dell’erba nel mattino.

Pablo Neruda, tratto da Stravagario.

 

Il cielo

Da qui si doveva cominciare: il cielo.
Finestra senza davanzale, telaio, vetri.
Un’apertura e nulla più,
ma spalancata.

Non devo attendere una notte serena,
né alzare la testa,
per osservare il cielo.
L’ho dietro a me, sottomano e sulle palpebre.
Il cielo mi avvolge ermeticamente
e mi solleva dal basso.

Perfino le montagne più alte
non sono più vicine al cielo
delle valli più profonde.
In nessun luogo ce n’è più
che in un altro.
La nuvola è schiacciata dal cielo
inesorabilmente come la tomba.
La talpa è al settimo cielo
come il gufo che scuote le ali.
La cosa che cade in un abisso
cade da cielo a cielo.

Friabili, fluenti, rocciosi,
infuocati e aerei,
distese di cielo, briciole di cielo,
folate e cumuli di cielo.
Il cielo è onnipresente
perfino nel buio sotto la pelle.

Mangio cielo, evacuo cielo.
Sono una trappola in trappola,
un abitante abitato,
un abbraccio abbracciato,
una domanda in risposta a una domanda.

La divisione in cielo e terra
non è il modo appropriato
di pensare a questa totalità.
Permette solo di sopravvivere
a un indirizzo più esatto,
più facile da trovare,
se dovessero cercarmi.
Miei segni particolari:
incanto e disperazione.

Wisława Szymborska, da La fine e l’inizio (1993), in La gioia di scrivere – Tutte le poesie (1945-2009), traduzione di Pietro Marchesani.

*Che cosa ascoltare? Bob Dylan – Knockin’ on the Heaven’s Door, Led Zeppelin – Stairway to Heaven, e poi?

salire

(Chiedere) scusa

 scusa

Quando sentiamo di dover chiedere scusa a qualcuno,  dovremmo a tutti i costi assecondare questo bisogno. Questa sensazione infatti non lascia scampo: il più delle volte si insinua, con il fastidio pungente di un sasso nella scarpa, mentre stiamo parlando d’altro, mentre facciamo la spesa o stiamo leggendo un libro. E… bam! ci si para davanti quest’idea, all’improvviso chiarissima, di avere in qualche modo sbagliato (anche se inconsapevolmente e senza volontà di  ferire, e magari tanto tempo prima). Ma c’è, e urla e ci rincorre finché non riusciamo a chiedere scusa, appunto.  Certo, comportarci in modo tale da non doverci mai scusare sarebbe la cosa più giusta, ma siamo umani…

(E poi? Scuse accettate? Scuse non accettate? Scuse accettate per finta? Questo è un altro discorso…)

 

Sotto una piccola stella

Chiedo scusa al caso se lo chiamo necessità.
Chiedo scusa alla necessità se tuttavia mi sbaglio.
Non si arrabbi la felicità se la prendo per mia.
Mi perdonino i morti se ardono appena nella mia memoria.
Chiedo scusa al tempo per tutto il mondo che mi sfugge a ogni istante.
Chiedo scusa al vecchio amore se do la precedenza al nuovo.
Perdonatemi, guerre lontane, se porto fiori a casa.
Perdonatemi, ferite aperte, se mi pungo un dito.
Chiedo scusa a chi grida dagli abissi per il disco col minuetto.
Chiedo scusa alla gente nelle stazioni se dormo alle cinque del mattino.
Perdonami, speranza braccata, se a volte rido.
Perdonatemi, deserti, se non corro con un cucchiaio d’acqua.
E tu, falcone, da anni lo stesso, nella stessa gabbia,
immobile con lo sguardo fisso sempre nello stesso punto,
assolvimi, anche se tu fossi un uccello impagliato.
Chiedo scusa all’albero abbattuto per le quattro gambe del tavolo.
Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte.
Verità, non prestarmi troppa attenzione.
Serietà, sii magnanima con me.
Sopporta, mistero dell’esistenza, se strappo via fili dal tuo strascico.
Non accusarmi, anima, se ti possiedo di rado.
Chiedo scusa al tutto se non posso essere ovunque.
Chiedo scusa a tutti se non so essere ognuno e ognuna.
So che finché vivo niente mi giustifica,
perché io stessa mi sono d’ostacolo.
Non avermene, lingua, se prendo in prestito parole patetiche,
e poi fatico per farle sembrare leggere.

Wislawa Szymborska, da  Ogni caso (1972), in La gioia di scrivere – Tutte le poesie (1945-2009), Adelphi,  traduzione di Pietro Marchesani.

 

* Io ascolterei: Tom Waits – Take Me Home; Tracy Chapman – Baby Can I Hold You? John Lennon – Jealous Guy, Elton John – Sorry Seems to Be the Hardest Word.

Ancora dubbi

«… la nostra ragione non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ch’ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e che non solo il dubbio giova a scoprire il vero […], ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita sa, e sa il piú che si possa sapere (8 settembre 1821) ». Giacomo Leopardi, dallo Zibaldone di pensieri.

«… apprezzo tanto due piccole paroline: “non so”. Piccole, ma alate. Parole che estendono la nostra vita in territori che si trovano in noi stessi e in territori in cui è sospesa la nostra minuta Terra. Se Isaak Newton non si fosse detto “non so”, le mele nel giardino sarebbero potute cadere davanti ai suoi occhi come grandine e lui, nel migliore dei casi, si sarebbe chinato a raccoglierle, mangiandole con gusto…» Wislawa Szymborska, dal discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel (1996).

interrogativi su neve1

Ritorno ancora sui dubbi (ne parlavo qui http://lapoesianonsimangia.myblog.it/2015/12/05/dubbi/). Sì, lo ammetto, le certezze non sono il mio forte. Ma (e in questo caso sono sicura al novanta per cento) chi non si trova almeno un po’ a disagio di fronte a qualcuno che sa sempre con dichiarat(issim)a sicurezza cosa è giusto fare o non fare? Di fronte a qualcuno che ha idee chiare su tuttomatutto e non userebbe la parola forse nemmeno sotto tortura? Ammettiamolo: è un po’ destabilizzante tanta, troppa(!), sicurezza. Un sano dubbio a volte può essere perfino utile. Solo uno ogni tanto: anche con i dubbi non esageriamo! Certo, il dubbio, per sua natura, mette in discussione e trasmette la sensazione di un qualcosa perennemente in divenire, e questo può spaventare… forse, mah…

C’é chi

C’è chi meglio degli altri realizza la sua vita.
È tutto in ordine dentro e attorno a lui.
Per ogni cosa ha metodi e risposte.

È lesto a indovinare il chi il come il dove
e a quale scopo.

Appone il timbro a verità assolute,
getta i fatti superflui nel tritadocumenti,
e le persone ignote
dentro appositi schedari.

Pensa quel tanto che serve,
non un attimo in più,
perché dietro quell’attimo sta in agguato il dubbio.

E quando è licenziato dalla vita,
lascia la postazione
dalla porta prescritta.

A volte un po’ lo invidio
– per fortuna mi passa.

Wislawa Szymborska, da Basta così, traduzione di Silvano De Fanti, Adelphi, 2012

 

Un appunto
 
La vita – è il solo modo
per coprirsi di foglie,
prendere fiato sulla sabbia,
sollevarsi sulle ali;

essere un cane,
o carezzarlo sul suo pelo caldo;

distinguere il dolore
da tutto ciò che dolore non è;

stare dentro gli eventi,
dileguarsi nelle vedute,
cercare il più piccolo errore.

Un’occasione eccezionale
per ricordare per un attimo
di che si è parlato
a luce spenta;

e almeno per una volta
inciampare in una pietra,
bagnarsi in qualche pioggia,
perdere le chiavi tra l’erba;
e seguire con gli occhi una scintilla nel vento;

e persistere nel non sapere
qualcosa d’importante.

Wislawa Szymborska,  da Attimo, 2002, in La gioia di scrivere – Tutte le poesie (1945-2009), traduzione di Pietro Marchesani.

* ascoltando: Anouk – I Don’t Know Nothing https://www.youtube.com/watch?v=b238QoIurho ; Edoardo Bennato – Abbi dubbi https://www.youtube.com/watch?v=PwcfwApAON8;.

Il tutto o il niente? Qualcuno, qualcosa o nessuno?

“Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso voler essere niente.
A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo (…)”.  

Fernando Pessoa, da Tabaccheria, in Poesie di Alvaro de Campos.

nulla

Ti senti più spesso parte di un tutto, parte di un niente o disperso tra questo e quello? Ti senti un qualcosa, un qualcuno o un nessuno?
(Le mie certezze sono quasi pari a zero, ma con una insolita sicurezza posso dire di sentirmi molto vicina alla condizione descritta nelle ultime due poesie qui sotto).

Tutto

Tutto –
una parola sfrontata e gonfia di boria.
Andrebbe scritta fra virgolette.
Finge di non tralasciare nulla,
di concentrare, includere, contenere e avere.
E invece è soltanto
un brandello di bufera.

Wislawa  Szymborska, da  Attimo (2002), in La gioia di scrivere – Tutte le poesie (1945-2009), traduzione di Pietro Marchesani.

 

Non sto pensando a niente,
e questa cosa centrale, che è niente,
mi è gradita come l’aria della notte,
fresca in rapporto al calore estivo del dì.

Non sto pensando a niente, che bello!

Non pensare a niente
è aver l’anima propria e intera.
Pensare a niente
è vivere intimamente
il flusso e riflusso della vita…

Non sto pensando a niente.
Solo come se mi fossi appoggiato male:
un dolore alle spalle, o in un fianco,
c’è un sapore amaro nell’anima mia:
é, che, in fin dei conti,
non sto pensando a niente,
ma davvero a niente,
a niente.

Fernando Pessoa da Un’affollata solitudine – Poesie eteronime, traduzione di Pietro Ceccucci, Bur.

 

La metamorfosi

Allora sono i pini
sono la sabbia calda
sono una brezza soave
un uccello leggero che delira nell’aria
o sono il mare che batte di notte
sono la notte.
Allora non sono nessuno.

Idea Vilariño, da Pobre mundo, (Povero mondo), 1966

 

Io sono Nessuno! Tu chi sei?
Sei Nessuno anche tu?
Allora siamo in due!
Non dirlo! Potrebbero spargere la voce!

Che grande peso essere Qualcuno!
Così volgare — come una rana
che gracida il tuo nome — tutto giugno —
ad un pantano in estasi di lei!

Emily Dickinson, n. 288, da Tutte le poesie, traduzione di Marisa Bulgheroni, Mondadori.

*Io ascolterei: Dave Gahan  & Soulsavers – All of This and Nothing; Franco Battiato – Io chi sono.

Colori e parole

“… uno non dipinge ciò che vede, ma ciò che sente, ciò che dice a sé stesso riguardo a ciò che ha visto”. Pablo Picasso

“Tutto ciò che volevo fare era dipingere luce sui muri della vita”. Lawrence Ferlinghetti

 

quadro1

Colori e parole. Ma soprattutto emozioni, pezzi di anime, pensieri di ombra e di luce. Se un quadro o un modo impareggiabile di dipingere  ispirano una poesia, o una canzone, la nostra fantasia è doppiamente rapita. Potremmo chiamarla magia.

 

Vermeer

Finché quella donna del Rijksmuseum
nel silenzio dipinto e in raccoglimento
giorno dopo giorno versa
il latte dalla brocca nella scodella,
il Mondo non merita
la fine del mondo.

Wislawa Szymborska, da Qui, 2009, in La gioia di scrivere, traduzione di Pietro Marchesani, Adelphi

 

 

Ferma il cavallo non fargli
mangiare il violino
strillò la madre di Chagall
Ma lui
continuò imperterrito
a dipingere
E divenne famoso
E continuò a dipingere
Il Cavallo con il Violino in Bocca
E quando lo finì
montò sul cavallo
e galoppò via
sventolando il violino
E poi con un profondo inchino lo offrì
alla prima nuda ignuda in cui si imbatté
E non c’era nessuna corda
a trattenerlo

Lawrence Ferlinghetti, (14.) da A Coney Island of the Mind, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, Minimum Fax.

 

* Io ascolterei: Don Mc Lean – (Vincent) Starry, Starry Night e Roberto Vecchioni – Vincent (molte canzoni sono state ispirate da quadri famosi: ho scelto queste semplicemente perché Van Gogh  è il pittore che più avrei voluto conoscere di persona).

Essere e non sognare (più): questo è il problema

Se la vita non ci ha dato altro

che una cella di reclusione,

facciamo in modo di addobbarla, almeno,

con le ombre dei nostri sogni“.

Fernando Pessoa, da Il libro dell’inquietudine

sognare

Ci si potrebbe anche chiedere a che serva  avere e alimentare dei sogni se poi la realtà ci sveglia, brutalmente,  ogni volta. Ma io continuo a pensare che i sogni siano ossigeno. Sempre e comunque. E tu?

(Per fare un prato)

Per fare un prato occorrono un trifoglio e un’ape –
un trifoglio ed un’ape
e il sogno!
Il sogno può bastare
se le api sono poche.

Emily Dickinson, da Tutte le poesie (n. 1755), traduzione di Marisa Bulgheroni, Mondadori

 

Egli desidera il tessuto del cielo

Se avessi il drappo ricamato del cielo,
intessuto dell’oro e dell’argento e della luce,
i drappi dai colori chiari e scuri
del giorno e della notte
dai mezzi colori dell’alba e del tramonto,
stenderei quei drappi sotto i tuoi piedi:
invece, essendo povero, ho soltanto sogni;
e i miei sogni ho steso sotto i tuoi piedi;
cammina leggera perché
cammini sopra i miei sogni.

William Butler Yeats, da Il vento tra le canne, 1899

 

Elogio dei sogni

In sogno
dipingo come Vermeer.
Parlo correntemente il greco
e non soltanto con i vivi.
Guido l’automobile,
che mi obbedisce.
Ho talento,
scrivo grandi poemi.
Odo voci
non peggio di autorevoli santi.
Sareste sbalorditi
dal mio virtuosismo al pianoforte.
Volo come si deve,
ossia da sola.
Cadendo da un tetto
so cadere dolcemente sul verde.
Non ho difficoltà
a respirare sott’acqua.
Non appena scoppia una guerra
mi giro sul fianco preferito.
Sono, ma non devo
esserlo, una figlia del secolo.
Qualche anno fa
ho visto due soli.
E l’altro ieri un pinguino.
Con la massima chiarezza.
Non mi lamento:
sono riuscita a trovare l’Atlantide.
Mi rallegro di sapermi sempre svegliare
prima di morire.

Wislawa Szymborska, da  La gioia di scrivere -Tutte le poesie (1945-2009), traduzione di Pietro Marchesani, Adelphi

 

L’infinito

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Giacomo Leopardi, da Canti (n.XII)

*Io ascolterei: di Michael Nyman, The Heart Asks Pleasure First (dal film “Lezioni di Piano”) https://l.facebook.com/l.php?u=https%3A%2F e Aerosmith, Dream On https://www.youtube.com/watch?v=ArsBwq-nwPw

Coup de foudre!

fulmine

Ma che cos’è questo colpo di fulmine? Capita davvero? O è un po’ sopravvalutato e mitizzato?  È veramente solo un soggetto per qualche film o anche questo è un luogo comune? Probabilmente ognuno conserverà la propria idea… fino a (una eventuale) prova contraria.

 

A una passante

Ero per strada, in mezzo al suo clamore.
Esile e alta, in lutto, maestà di dolore,
una donna è passata. Con un gesto sovrano
l’orlo della sua veste sollevò con la mano.

Era agile e fiera, le sue gambe eran quelle
d’una scultura antica. Ossesso, istupidito,
bevevo nei suoi occhi vividi di tempesta
la dolcezza che incanta e il piacere che uccide.

Un lampo… e poi il buio!  ̶  Bellezza fuggitiva
che con un solo sguardo m’hai chiamato da morte,
non ti vedrò più dunque che al di là della vita,

che altrove, là, lontano  ̶  e tardi, e forse mai?
Tu ignori dove vado, io dove sei sparita;
so che t’avrei amata, e so che tu lo sai!

Charles Baudelaire, n. XCIII da Tableaux parisiens (Quadri di Parigi), da I fiori del male  e altre poesie, traduzione di Giovanni Raboni, Einaudi

 

Amore a prima vista

Sono entrambi convinti
che un sentimento improvviso li unì.
È bella una tale certezza
ma l’incertezza è più bella.
Non conoscendosi prima, credono
che non sia mai successo nulla fra loro.
Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi
dove da tempo potevano incrociarsi?
Vorrei chiedere loro
se non ricordano  ̶
una volta un faccia a faccia
forse in una porta girevole?
uno “scusi” nella ressa?
un “ha sbagliato numero” nella cornetta?
̶   ma conosco la risposta.
No, non ricordano.
Li stupirebbe molto sapere
che già da parecchio
il caso stava giocando con loro.

Non ancora del tutto pronto
a mutarsi per loro in destino,
li avvicinava, li allontanava,
gli tagliava la strada
e soffocando un risolino
si scansava con un salto.
Vi furono segni, segnali,
che importa se indecifrabili.
Forse tre anni fa
o il martedì scorso
una fogliolina volò via
da una spalla all’altra?
Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto.
Chissà, era forse la palla
tra i cespugli dell’infanzia?
Vi furono maniglie e campanelli
in cui anzitempo
un tocco si posava sopra un tocco.
Valigie accostate nel deposito bagagli.
Una notte, forse, lo stesso sogno,
subito confuso al risveglio.
Ogni inizio infatti
è solo un seguito
e il libro degli eventi
è sempre aperto a metà.

Wislawa Szymborska, da La fine e l’inizio, nella traduzione di Pietro Marchesani

 

*ascoltando Deep Purple – Perfect Strangers https://www.youtube.com/watch?v=gZ_kez7WVUU

Ad alcuni piace la poesia

lasciarpa

Già, proprio come dice la poetessa polacca: ad alcuni piace la poesia, quindi non a tutti.
E su questo non si discute. Ma a quelli a cui piace, perché piace?
Perché insegna a vedere il mondo con occhi diversi? Perché una poesia non è mai solo quello che sembra voler dire? Perché nasce da un’emozione e sa emozionare? Perché fa finta di essere inutile (la modestia della poesia!)? Perché sa dire che ogni cosa è unica? Perché libera le parole, i pensieri e le persone? Perché se regali una poesia  viene accolta con stupore (verrà gettata? mah, in fondo questo dubbio  vale per ogni regalo… )? Perché, perché… ognuno pensi al suo perché…

Ad alcuni piace la poesia

Ad alcuni –
cioè non a tutti.
E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza.
Senza contare le scuole, dove è un obbligo,
e i poeti stessi,
ce ne saranno forse due su mille.

Piace –
ma piace anche la pasta in brodo;
piacciono i complimenti e il colore azzurro,
piace una vecchia sciarpa,
piace averla vinta,
piace accarezzare un cane.

La poesia –
ma cos’è mai la poesia?
Più d’una risposta incerta
è stata già data in proposito.
Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo
come all’àncora di un corrimano.

Wislawa Szymborska, da Wislawa Szymborska – Opere, Adelphi, 2008, a cura di Pietro Marchesani

Dubbi

dubbi

Forse a volte ci converrebbe parlare, chiedere… O forse no.

ABC

Ormai non saprò più
cosa di me pensasse A.
Se B. fino all’ultimo non mi abbia perdonato.
Perché C. fingesse che fosse tutto a posto.
Che parte avesse D. nel silenzio di E.
Cosa si aspettasse F., sempre che si aspettasse qualcosa.
Perché G. facesse finta, benché sapesse bene.
Cosa avesse da nascondere H.
Cosa volesse aggiungere I.
Se il fatto che io c’ero, lì accanto
avesse un qualunque significato
per J. per K. e il restante alfabeto.

Wislawa Szymborska, da Opere, Adelphi, 2008, a cura di Pietro Marchesani

 

La poesia di Wisława: dal quotidiano all’universale

wislawa-1

Impossibile annoiarsi.
La poesia di Wisława Szymborska (poetessa polacca nata nel 1923, premio Nobel per la letteratura nel 1996), nella sua apparente semplicità, cattura immancabilmente il lettore perché sa guardare con sottile ironia alla vita reale e quotidiana e, da questa, si spinge a indagare la complessità del mondo.

«Il mondo, qualunque cosa noi ne pensiamo, spaventati dalla sua immensità e dalla nostra impotenza di fronte a esso, amareggiati dalla sua indifferenza alle sofferenze individuali (…) esso è stupefacente…». È, questo, un frammento del suo discorso tenuto in occasione del conferimento del Nobel e, non a caso, la motivazione che accompagna il premio recita: «… per una poesia che, con ironica precisione, permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti d’umana realtà».

Le poesie della Szymborska, mai troppo lunghe e costituite da versi liberi, partono sempre da un punto di vista privo di retorica e poco solenne; sono tutte legate all’attualità del suo tempo storico, con una forte componente di denuncia per lo stato delle cose in cui il mondo intero si trova a vivere.

Se, per esempio, leggiamo Attentatori (nella traduzione di Pietro Marchesani, come le altre due proposte), quello che colpisce è soprattutto il punto di vista inaspettato e quotidiano da cui la poetessa parte per la sua denuncia contro la violenza del terrorismo.

Attentatori

Per giorni interi pensano
come uccidere, per uccidere,
e a quanti ucciderne, per molti ucciderne.
Oltre a questo con appetito mangiano le loro pietanze,
pregano, si lavano le gambe, nutrono gli uccelli,
telefonano grattandosi sotto le ascelle,
fermano il sangue, quando si feriscono a un dito,
se sono donne, comprano assorbenti,
belletto per le palpebre, fiorellini nei vasi,
tutti scherzano un po’, quando sono in vena,
sorseggiano dal frigo succhi di agrumi,
di sera guardano la luna e le stelle,
si mettono alle orecchie le cuffie con musica silenziosa,
dormono dolcemente fino alle luci del mattino
– a meno che ciò che pensano, debbano farlo di notte.

Pur conoscendo il suo stile però, l’interpretazione delle sue poesie non è mai scontata: i contenuti hanno molteplici significati. Leggendo i suoi versi si comprende la voglia della poetessa di trovare delle risposte agli interrogativi a cui non riusciva a dare una logica spiegazione. Del resto lei stessa disse: «Apprezzo tanto due piccole paroline: – non so. Piccole, ma alate.(…) Anche il poeta, se è vero poeta, deve ripetere di continuo a se stesso  “ non soˮ (…)».

Nella poesia che segue (che per il titolo potrebbe sembrare legata a un solo momento storico, ma che in realtà può abbracciare la condizione della guerra di ogni tempo e luogo), i dubbi diventano dolorosamente universali e l’unica certezza che emerge è l’amore di una madre per i suoi figli. E anche in questo caso non c’è traccia di retorica o immagini “già letteˮ di protesta.

Vietnam

Donna, come ti chiami? – Non lo so.
Quando sei nata, da dove vieni? – Non lo so.
Perché ti sei scavata una tana sottoterra? – Non lo so.
Da quando ti nascondi qui? – Non lo so.
Perché mi hai morso la mano? – Non lo so.
Sai che non ti faremo del male? – Non lo so.
Da che parte stai? – Non lo so.
Ora c’è la guerra, devi scegliere. – Non lo so.
Il tuo villaggio esiste ancora? – Non lo so.
Questi sono i tuoi figli? – Sì

Infine, in quest’ultima proposta di lettura, emerge chiarissima la grande capacità della poetessa polacca di cogliere le peculiarità dell’essere umano, nel bene e nel male.

Contributo alla statistica

Su cento persone:

che ne sanno sempre più degli altri
– cinquantadue;

insicuri a ogni passo
– quasi tutti gli altri;

pronti ad aiutare,
purché la cosa non duri molto
– ben quarantanove;

buoni sempre,
perché non sanno fare altrimenti
– quattro, be’, forse cinque;

propensi ad ammirare senza invidia
– diciotto;

viventi con la continua paura
di qualcuno o qualcosa
– settantasette;

dotati per la felicità,
– al massimo non più di venti;

innocui singolarmente,
che imbarbariscono nella folla
– di sicuro più della metà;

crudeli,
se costretti dalle circostanze
– è meglio non saperlo
neppure approssimativamente;

quelli col senno di poi
– non molti di più
di quelli col senno di prima;

che dalla vita prendono solo cose
– quaranta,
anche se vorrei sbagliarmi;

ripiegati, dolenti
e senza torcia nel buio
– ottantatré
prima o poi;

degni di compassione
– novantanove;

mortali
– cento su cento.
Numero al momento invariato.

Senza dubbio la sua poesia scansa in modo netto i cliché e il lirismo eccessivo, è saggia, sobria (la poetessa stessa, sempre nel suo discorso al conferimento del Nobel, confessa la leggera vergogna che si prova nel rivelare agli altri il proprio mestiere di poeta), attenta soprattutto al piccolo e al piccolissimo di questo mondo.

Leggere i versi della Szymborska (purtroppo scomparsa nel 2012) è dunque in ogni caso un’esperienza poetica interessante che non delude mai anche  perché, dice lei stessa: «… nel linguaggio della poesia, in cui ogni parola ha un peso, non c’è più nulla di ordinario o normale (…) e soprattutto (non lo è – n.d.r) nessuna esistenza di nessuno in questo mondo.» (dal discorso per il Nobel).

(Irene Marchi – articolo già apparso su http://caffebook.it/)