Il paradosso della poesia

In primo piano

La poesia, ultimamente, è molto celebrata, è stata rivalutata, viene insegnata ovunque, è molto citata (usata perfino – benché spezzettata − come didascalia di selfie in déshabillé), eppure, in genere, chi scrive (o prova a scrivere) poesie si vergogna a dire che scrive poesie.  Come mai?

Ma chi se ne importa! – direte voi – Sono problemi di quelli che scrivono poesia: hanno voluto la bicicletta…?

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Fare poesia

‘Devi abitare la poesia
se vuoi fare poesia’.

E cosa significa ‘abitare’?

Significa portarla come un abito, indossare
le parole, sedendo nella luce più netta,
nella seta del mattino, nel fodero della notte;
un sentire spoglio e frondoso in un’aria che sorprende;
familiare… insolita.

E cosa significa ‘fare’?

Essere e diventare il clima mutevole
delle parole, il servo della musa a condizioni
atroci, intraprendere viaggi sopra voci,
evitare la collina dell’ego, il pozzo dell’afflizione,
la sirena che sussurra stampare, successo, stampare,
successo, successo, successo.

E perché abitare, fare, ereditare poesia?

Oh, è la commedia condivisa della peggiore
benedizione; il suono che guida la mano;
la parola vitale che scorre da una mente all’altra
attraverso le stanze lavate dei sensi;
una di quelle stregate, indifendibili, impoetiche
croci che pur dobbiamo portare.


Anne Stevenson, da
Le vie delle parole, Interno Poesia Editore, 2018, traduzione di Carla Buranello

 

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Making Poetry

‘You have to inhabit poetry
if you want to make it.’

And what’s ‘to inhabit’?

To be in the habit of, to wear
words, sitting in the plainest light,
in the silk of morning, in the shoe of night;
a feeling bare and frondish in surprising air;
familiar…rare.

And what’s ‘to make’?

To be and to become words’ passing
weather; to serve a girl on terrible
terms, embark on voyages over voices,
evade the ego-hill, the misery-well,
the siren hiss of publish, success, publish,
success, success, success.

And why inhabit, make, inherit poetry?

Oh, it’s the shared comedy of the worst
blessed; the sound leading the hand;
a wordlife running from mind to mind
through the washed rooms of the simple senses;
one of those haunted, undefendable, unpoetic
crosses we have to find.

°ascoltando Adam Baldych, Paolo Fresu – Poetry  –  https://www.youtube.com/watch?v=AJap8HP841s

Poesia che passa, poesia che resta

Il 21 marzo  è, tra le altre cose, la giornata mondiale della poesia. La poesia: quella cosa scritta dai poeti, quei mattacchioni!

Il mondo è pieno di poeti, ma la maggior parte si nasconde abilmente e nessuno saprà mai della loro esistenza (come poeti). Altri invece vengono “ritrovati”, apprezzati o comunque ricordati solo in seguito alla loro dipartita. Ed è con le parole di uno di questi che voglio festeggiare la poesia. Il testo in questione è di Antoine Pol (Douai, 1888-1971) che proprio a questi versi deve la sua notorietà (postuma). Les passantes, in origine compresa nel volume Émotions poétiques (Editions du Monde Nouveau, 1918), fu infatti scoperta e in seguito messa in musica (con grande successo) da Georges Brassens nel 1972, e due anni dopo da Fabrizio De André (qui la storia completa).

E come le passanti di cui si canta qui sotto, così sono alcune poesie:

passano ma qualcosa resta, oltre il tempo.

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Voglio dedicare questa poesia
a tutte le donne amate
per qualche istante segreto.
A quelle conosciute appena,
che un destino diverso porta via
e che non si ritrovano più.
A quella che si vede apparire
per un secondo alla finestra
e che, rapida, scompare via,
però la sua sagoma snella
è tanto graziosa e sottile
da rimanerne rasserenato.
Alla compagna di viaggio,
i cui occhi, affascinante paesaggio
fan sembrare breve il cammino
e che si è il solo, forse, a capire
ma che, però, si lascia scendere
senza averle sfiorato la mano.
All’esile e leggera ballerina di walzer
che vi è parsa così triste e nervosa
in una notte di carnevale,
che è voluta rimanere ignota
e che non è più ritornata
a volteggiare in un altro ballo.
A quelle che sono già prese
e che vivendo delle ore grigie
accanto a uno ormai troppo diverso
vi hanno, inutile follia,
fatto vedere la malinconia
d’un avvenire disperante.
A quelle timide innamorate
che sono restate in silenzio
e che ancora vi rimpiangono,
a quelle che se ne sono andate
lontane da voi, tristi, abbandonate,
vittime d’uno stupido orgoglio.
Immagini care appena scorte,
speranze d’un giorno deluse,
domani sarete nell’oblio
per quel poco di felicità che sopravvenga
è raro che ci si ricordi
degli episodi del cammino.
Ma se la vita è andata male,
si pensa con un po’ di rimpianto
a tutte quelle felicità intraviste,
ai baci che non si osò prendere,
ai cuori che forse vi attendono,
agli occhi mai più rivisti
allora, nelle sere di stanchezza
mentre si popola la propria solitudine
di fantasmi del ricordo
si piangono le labbra assenti
di tutte quelle belle passanti
che non si è saputo trattenere.

Antoine Pol (Douai, 1888-1971), da Emotions poétiques, Editions du Monde Nouveau, 1918

°ascoltando Georges Brassens – Les Passantes https://www.youtube.com/watch?v=vvjhsZYaofk e Fabrizio De Andrè – Le passanti – https://www.youtube.com/watch?v=6V0JPcPhhxo&t=13s

Nonostante tutto

 

fiorerubatojpg

Nonostante tutto, è di nuovo primavera.

Nonostante tutto, proviamo a non farci male.

Un soffio

Vorrei essere
un profumo
leggero, tra i frammenti
di nuvole e cielo

solo un soffio
– vorrei essere –
di musica, presente
anche nel silenzio.
Ma in quello che posso essere
vorrei soltanto non farti male.

Irene Marchi, da L’uso delle parole e delle nuvole, Cicorivolta Edizioni, 2020

*ascoltando Brian Eno & Harold Budd – First Light –  https://www.youtube.com/watch?v=GXUA6WaT5j0